Così suona in italiano il film
"The Visitor" del regista americano Tom McCarthy, che qui da noi è uscito alla fine dell'anno scorso. L'ho visto sere fa e m'è molto piaciuto. Si tratta di cinema minimale, sommesso, che racconta con leggerezza e sensibilità, senza retorica, la storia di un uomo grigio e solitario il quale si lascia vivere in una monotonia mortale, da quando cinque anni prima è scomparsa la moglie pianista. Walter Vale (interpretato da un grande Richard Jenkins, protagonista per la prima volta a 60 anni suonati !) è un professore di economia in una università del Connecticut, che non ama il suo lavoro, conosce poco i suoi studenti, da vent'anni tiene lo stesso corso: insomma, vive come imbalsamato nella banalità quotidiana. In sostanza appare come un uomo senza ambizioni, spento, nient'altro che spettatore della sua vita, quasi un perdente che nonostante l'età non più verde va ancora cercando la propria identità. C'è un particolare nel film che rende bene la personalità di quest'uomo. Il professore da tempo si sforza di imparare a suonare il pianoforte, ma i risultati sono deludenti, quindi fallisce anche in quello che sembra essere l'estremo tentativo per mantenere un rapporto con la moglie, oltre la morte.
Fino a questo punto, dunque, il regista costruisce una vicenda fatta di piccoli gesti, di niente (si potrebbe dire), praticamente senza azione. Ma di colpo succede qualcosa nel monotono fluire della vita di Walter, quando come da un turbine improvviso la sua non-vita, il suo non-agire vengono stravolti da un incontro davvero "inatteso". Tutto dipende dall'episodio fortuito e assolutamente inaspettato che tocca al professore quando si reca, suo malgrado, a New York per prendere parte ad un convegno dove tra l'altro si presenta un libro alla cui stesura egli ha collaborato. Entrato nell'appartamento che possiede in città, ma non abita da tempo, vi trova installata a sua insaputa una coppia di immigrati, un giovane siriano e la sua compagna senegalese, cui l'appartamento è stato affittato con l'inganno. Passato il primo momento di paura e di tensione, quasi di scontro, il professore decide di ospitare per un po' i ragazzi, finchè essi non troveranno una diversa soluzione abitativa.
Tra loro tre comincia a svilupparsi un rapporto quasi amichevole, che si consolida via via, specialmente fra Walter e Tarek, mentre la ragazza senegalese resta un po' diffidente e tesa. Il giovane Tarek per campare suona il tamburo africano, e la sua passione per la musica primordiale è tanto coinvolgente da spingere anche Walter a suonarlo: e qui il professore dimostra quel talento musicale vanamente ricercato nello studio del pianoforte. A me è parso che sia stata proprio la musica, al di là delle differenze fra i due (età, cultura, ecc.), a rafforzare il loro legame di amicizia. Il professore si risveglia piano piano alla vita, recuperando in certo senso la capacità di comunicare e provare emozioni, sì che non appare più come l'uomo spento, senza interessi, monotono e grigio delle scene iniziali del film. Questa nuova convivenza sembra fluire tranquilla, ed è bello osservare i due, Tarek e Walter, che in una sorta di scorribanda multietnica vanno a suonare insieme il djembé al Central Park !
Tutto bene, dunque, fino al momento in cui, per un banale equivoco, il giovane siriano viene fermato dalla polizia in metropolitana e da qui in poi si scatena tutta una serie di conseguenze drammatiche. Infatti si scopre che la posizione dei due ragazzi era irregolare, essendo essi clandestini. Tarek finisce internato in un centro di detenzione.
Qui comincia la parte del film che mi ha toccato più profondamente. Entra in scena l'azione. Walter si impegna con tutte le sue forze per far uscire il giovane siriano, assume un avvocato per contrastare la prevedibile espulsione, anche con l'aiuto di Mouna (la madre di Tarek, anch'essa vedova, giunta a New York poco dopo l'arresto del figlio). L'entrata in scena del quarto personaggio, secondo me, anzichè complicare la trama o far prendere al film la comoda strada della conclusione consolatoria (sembra nascere dell'affetto fra i due vedovi), dà modo al regista di rimarcare, in un alternarsi di commozione e sorrisi, la denuncia di cos'è diventata l'America dopo l'11 settembre, se è vero come è vero che la paura diffusa pare aver fatto rinnegare all'intero Paese i suoi stessi principi fondativi. E' una denuncia senza retorica, anche perchè bastano poche parole per far comprendere l'aria che tira negli States, dove dominano il sospetto e la diffidenza, uniti alla paura, essendo le ferite dell'attentato alle Torri Gemelle ancora aperte. Gli eventi precipitano e l'espulsione di Tarek si fa più vicina, nonostante gli sforzi di Walter per salvarlo. Il ragazzo urla la sua rabbia: "non sono un terrorista, io ! i terroristi non stanno rinchiusi qui dentro, hanno soldi, appoggi ... ". Tradotto: a pagare le conseguenze di una politica che pare aver stravolto i veri valori dell'America, e cioè una nuova opportunità fornita a tutti ed una democrazia nella quale gli immigrati da sempre rappresentano la linfa vitale, sono in genere i poveracci che tentano di vivere onestamente nella speranza di costruirsi un futuro decente. E' contro i deboli e gli indifesi che si scatena l'azione cieca ed inflessibile di scelte legislative e istituzionali dettate dalla paura. Non succede così anche qui da noi, in Italia ?
Ad un certo punto, con dolente frustrazione, la vedova Mouna afferma: "E' come in Siria", ricordando che là ha perduto il marito giornalista, oppositore del regime. Lei, che fino a pochi giorni prima era vissuta nella convinzione di aver ritrovato negli USA una nuova vita di pace, vede crollare tutte le sue speranze: l'ingiustizia continua, non v'è differenza.
Più sopra ho detto che il regista si esprime senza retorica e con toni di sommesso lirismo. Ma non si creda che la riflessione sul tema dell'integrazione e dell'America post-11 settembre sia meno forte e coinvolgente per questo, tutt'altro ! Non servono toni roboanti per denunciare, ma è sufficiente che la storia ci tocchi intimamente perchè resti scolpita dentro di noi.
L'ingiustizia, si diceva, continua se dominano la paura e l'odio per l'altro. Pare proprio che ci sia tanta strada da fare ancora, perchè si realizzi la piena integrazione. La conclusione del film non è per niente consolatoria, anzi evita accuratamente l'happy-end: infatti questo nuovo nucleo familiare è costretto a disgregarsi, e per un essere umano che si è ritrovato ed è tornato alla vita (il professore Walter Vale) ce ne sono altri che stanno perdendo tutto. Altro che "sogno americano" ! Il film termina mentre Walter scarica la sua rabbia impotente suonando il tamburo africano, come faceva Tarek, quasi a volerne prendere il testimone.
Per me tutto molto bello e toccante. Ve lo consiglio di cuore. Lupo.
2 commenti:
Sottosrivo la tua recensione. Molto ben realizzato ed incisivo nonstante la levità del raccontare.
luigi
Mi mancava questo divagare lieve articolato e intenso al mio onirico pensare quando l'ho visto.Grazie lupo 42 Bianca 2007
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