lunedì 31 dicembre 2007

Sul Capodanno e dintorni

Fra i ricordi della fanciullezza che s'affastellano nella memoria, talora incerti e confusi per la lunga serie di anni alle spalle, mi è gradito in questo periodo di feste riandare al tempo in cui nella nostra famiglia c'era l'abitudine di trascorrere insieme le giornate tra il Natale e l'Epifania. Non dico tutti i giorni, ma assai di frequente, questo sì, la casa dei nonni materni ci vedeva riuniti per pranzare o cenare nella grande cucina o anche semplicemente per stare in compagnia a giocare. Gli adulti si impegnavano in interminabili partite a ramino, interrompendosi appena per sorbire il punch che la zia preparava fra una mano e l'altra senza perdere nemmeno una battuta, non so come facesse. Intanto noi bambini ci dedicavamo ai nostri giochi o stavamo ad osservare i grandi. A me piaceva molto studiarne il comportamento durante le partite, non soltanto per imparare le regole ma anche per capire le astuzie che usavano: desideravo infatti prendere parte anch'io al gioco, visto che ormai ero grandicello. Più di tutto mi piaceva la tombola, specialmente tenere il tabellone. Così, ad ogni numero pescato, potevo pronunciare ad alta voce i commenti che avevo imparato ascoltando i grandi: ”settantasette, le gambe delle donne; novanta, la paura; quarantasette, il morto che parla !” mentre i giocatori incalzavano con “mescola bene, mi raccomando !” oppure ”é uscito il trenta ?”. V'erano altri passatempi, ad esempio il “sette e mezzo” ed uno che non ricordo bene, forse si chiamava “campana e martello” e somigliava un po' al gioco dell'oca. Certe serate si sedeva al tavolo con gli altri anche mio cugino, molto più grande di me, un giovanotto atletico che era un po' il mio eroe preferito: correva in motocicletta, andava a caccia, giocava nella squadra di calcio, faceva l'università a Bologna e, anche se la cosa per me allora non aveva un gran significato, si diceva piacesse molto alle ragazze. Lo adoravo talmente tanto, da decidere che da grande sarei diventato come lui, che oltretutto era fortunato e vinceva sempre quando si trattava di soldi (questo mio cugino, disposto a concedere parte del suo tempo ai parenti ed a ritardare l'uscita serale, ma solo ... se si giocava a soldi, mi sa che fosse una lenza !).
La cucina, teatro di quelle lunghe serate di festa, era molto ampia, forse il locale più grande dell'abitazione, con un enorme focolare in cui si bruciava una grande quantità di legna per riscaldare l'ambiente, ma dove anche si cuocevano vivande di ogni genere. Oltre all'immancabile caldaro di rame per l'acqua, il focolare disponeva di specifici fornelli per i cibi a lenta cottura e per i dolci, nonchè di un girarrosto con la carica a molle, sul cui spiedo ho visto rosolare tante specialità diverse ma sempre gustosissime: pure con i mezzi scarsi di una volta le nostre donne erano fantastiche, altrochè. In un vano apposito, ricavato da una parte della cappa, si conservavano alcuni tegami di rame di varie dimensioni di cui la zia andava fiera, avendoli salvati dalle requisizioni fasciste, del genere “rame alla patria”, diceva. Il focolare occupava quasi interamente la parete di sinistra della stanza, e la cappa era talmente grande che spesso noi bambini, durante i nostri giochi, la usavamo come tana per nasconderci, ovviamente a fuoco spento ! Ci tiravamo su fino a scomparire al suo interno, dopo esserci aggrappati al gancio che il nonno utilizzava per appendere il prosciutto, quand'era il momento. La cucina era tanto spaziosa ed accessoriata poichè in passato, “anticamente” come si diceva in casa, il primo piano dell'abitazione era adibito a trattoria, dunque gli avi dovevano essere attrezzati per preparare pranzi e cene, sia per la numerosa famiglia che per i clienti. Me li figuro gli avventori di quell'epoca, carrettieri, braccianti, facchini (tutta gente d'appetito robusto), intenti a saziare nella trattoria “da Gigi” la loro fame antica. E quasi li vedo mentre ingurgitano le povere semplici pietanze del tempo, annaffiate dall'ottimo verdicchio della casa che giunge al banco della mescita direttamente, non so come, dalle damigiane poste nella sottostante cantina.
Dunque il nonno, rispettando la tradizione, alcuni giorni prima di Natale si faceva portare dalla campagna un bel ceppo di ulivo che doveva ardere nel focolare per tutto il periodo delle feste, come portafortuna. Essenzialmente il ceppo aveva il compito, come dire, di collaborare alla funzione propria della legna da ardere, che ogni anno verso la fine dell'estate veniva accatastata in cantina, pronta all'uso: in effetti i tronchetti di pioppo, olmo, rovere e quant'altro bruciavano, certo, tuttavia la fiamma si limitava a lambire il ceppo sapientemente accostato, sicchè esso si consumava piano piano e poteva durare fino alla Befana, senza problemi. Di notte, l'ultimo a salire alle stanze di sopra per coricarsi metteva in sicurezza il camino, assicurandosi che il fuoco si stesse spegnendo. L'indomani il nonno, sempre il primo ad alzarsi ed a scendere in cucina, lavorava abilmente con l'attizzatoio per staccare dal ceppo dei piccoli tizzoni ancora accesi e con l'aiuto di qualche legnetto secco faceva in un attimo ripartire la fiamma. Il nonno era orgoglioso del suo focolare, eccome. Dopo cena, prima di uscire per recarsi al Bar Centrale come era solito fare con kantiana precisione, sostava in silenzio per qualche minuto ad ammirare il fuoco scoppiettante. Poi, preso con le molle un tizzone bello rosso e badando a non scottarsi, s'accendeva l'ultimo mezzo toscano della giornata e dopo un paio di boccate s'avviava verso il portone e “scappava” (scappare è il verbo che si usa dalle mie parti al posto di “uscire di casa" e l'espressione, oggi, sembra urtare alquanto la suscettibilità delle signore, non tutte però).
Il primo gennaio vigeva la consuetudine di avere in casa, come ospiti d'onore al pranzo appositamente allestito per il Capodanno, i “capoccia” dei mezzadri che coltivavano i poderi del nonno. All'epoca nelle Marche era diffusa la mezzadria, essendo ancora minoranza i coltivatori diretti o i fittavoli, presenti invece in altre parti del Paese. Non che mio nonno fosse un ricco proprietario terriero, tutt'altro. Possedeva due piccoli poderi a qualche chilometro dal paese che gli davano, tolte le spese, poco più di niente, ed un altro microscopico appezzamento appena fuori le mura, quasi un orto. Ma insomma, la brava gente che campava faticando sulla sua terra veniva, in certo modo, ricompensata una volta all'anno con l'invitare i capi-famiglia alla tavola del “sor padrone”, come si diceva allora, appunto per festeggiare insieme l'anno nuovo. Ero un ragazzino, quindi mi limitavo a ciò che vedevo e potevo capire: il fatto alquanto insolito mi piaceva ed a me bastava questo, non essendo assolutamente in grado di giudicare l'atteggiamento del nonno o i motivi di questa sua decisione. D'altra parte, avevo notato la familiarità con cui egli trattava i suoi contadini, quindi vederli a pranzo con noi mi confermava che essi in fin dei conti non erano degli estranei, tutt'altro. E poi il “sor padrone” aveva anche un regalino per loro, proprio come se fossero di casa. Quale ulteriore riconoscimento i “capoccia” avevano il privilegio di recare con sé il primogenito. Venivano solo due figli, poiché uno dei contadini non aveva discendenza. Il più grande poteva avere una ventina d'anni e non mi interessava, mentre l'altro era un ragazzino della mia età che conoscevo abbastanza bene, incontrandolo di frequente al podere. La sua presenza era molto stimolante per me, in quanto m'avrebbe fornito finalmente l'occasione di rivalermi di tutte le brutte figure che mi toccava fare quando accompagnavo il nonno nelle periodiche visite in campagna. In quell'ambiente, infatti, non c'era storia: io ero impacciato, e finivo regolarmente per fare la parte dell'incapace in confronto a lui, ragazzino di campagna che sapeva dominare la situazione e possedeva abilità sconosciute ad un coetaneo di paese. Egli non si faceva scrupoli a sfoggiare tutto il suo campionario con me. Iniziava dalla stalla, col mostrarmi quant'era bravo a mungere, poi si divertiva a chiudermi dentro il recinto dei maiali, scherzo che m'infastidiva un sacco, quindi mi guidava tutto baldanzoso giù per il campo per farmi ammirare il nido che aveva scoperto il giorno innanzi, e altre consimili esibizioni. In genere, però, la mia residua capacità competitiva era annientata dal constatare quanto più lontano e preciso di me sapesse colpire con la fionda, esercizio in cui non mi ritenevo l'ultimo arrivato. Rientravo in paese quasi sempre frustrato dal confronto, tuttavia felice per le ore trascorse in campagna (ambiente che ho sempre amato e che mi fa star bene anche ora). Che la felicità dipendesse però, almeno in parte, dalla fine dell'impari lotta col mio giovane rivale di campagna ? Mi è sempre restato il dubbio.
Comunque sia, il Capodanno rappresentava l'occasione della mia rivincita ! Infatti in casa del “sor padrone”, alla nostra tavola riccamente imbandita, avrei fatto valere il mio prestigio di fronte al suo impaccio ed alla sua inettitudine, incapace com'era non dico di conversare ma persino di starci come si deve, a tavola. Che bello, adesso mi sentivo al sicuro e superiore nella mia classe sociale, ben più elevata della sua e dove le abilità “contadine” non sarebbero servite a nulla, anzi. Finalmente mi sarei potuto divertire alle sue spalle. Inoltre quell'anno (poteva essere il 1953-54) avevo un asso nella manica, che l'avrebbe lasciato di stucco a crepare d'invidia. Dopo pranzo, infatti, avrei orgogliosamente esibito il nuovo giocattolo ricevuto in regalo da Gesù Bambino. A tal proposito debbo precisare che, di anno in anno, alla tradizionale Befana si stava aggiungendo nelle famiglie italiane questa nuova consuetudine di Gesù Bambino, che ovviamente noi bambini non facemmo difficoltà ad accettare. Pertanto anche a me era già toccato un dono, pur restando i regali della “vecchia” quelli ancora più sognati e attesi nei piccoli paesi come il mio, un po' ai margini del progresso socio-culturale di quei primi anni cinquanta. Avevo dunque ricevuto un piccolo proiettore cinematografico, naturalmente senza sonoro e funzionante a manovella, corredato di alcuni spezzoni di pellicola 35 mm. a colori: un po' di quella roba che oggi si chiamerebbe “trailers” ed alcuni metri di cartoni animati. Per me fu un regalo meraviglioso, pur dovendo armeggiare parecchio per inserire e togliere i vari spezzoni. Li proiettavo in continuazione in cucina, su un tratto di parete liscia e bianca che pareva proprio uno schermo, ed ero diventato abbastanza abile a regolare la velocità di rotazione della manovella, tanto che la visione delle varie scene era rotonda, senza strappi. Rimaneva però il dover ogni volta avvolgere e riavvolgere le pellicole, procedimento alquanto laborioso, tanto che qualche settimana dopo mio padre chiese al proiezionista del locale cinematografo il favore di sigillare gli spezzoni tra di loro, sì da ottenere un'unica pellicola più comoda da caricare. Per verificare il risultato del suo intervento, il tecnico mi fece sedere in sala e proiettò il film così ottenuto sul grande schermo del cinema, così scoprii che c'era addirittura il sonoro ! La cosa mi fece un'enorme impressione.
Dunque, quel Capodanno, al termine del pranzo posiziono in un angolo del tavolo il mio bravo proiettore, lo collego alla presa elettrica ed inizio a mostrare il primo spezzone che avevo precedentemente messo in macchina: un breve cartone animato, molto divertente. Mentre manovro la manovella sto molto attento a sbirciare in viso il mio amico campagnolo, pronto a coglierne le reazioni, perchè questo sarà il vero spettacolo per me ! Non me lo perderei per niente al mondo, anzi me lo voglio godere fino all'ultimo. Ma, con mia grande sorpresa, è proprio la reazione di suo padre Augusto a colpire, con me, tutti i circostanti. Ci si rende immediatamente conto che il “capoccia”, per la prima volta in assoluto, sta vedendo delle immagini in movimento. Sì, incredibile, egli non era mai stato al cinema in vita sua e dunque, quasi sconvolto, manifestava tutto il suo stupore, agitandosi sulla sedia, e fanciullescamente gridava: “si muove, guarda, si muove !” e giù a ridere come un matto. Reagiva come un bambino o come l'indigeno della foresta amazzonica al primo contatto con la modernità. Il comportamento sorprendente ed inatteso del buon Augusto, lo confesso, mi tolse un po' il piacere della “vendetta” che ero pronto a cogliere nei confronti del figliolo. Mi sentii in imbarazzo, quasi mi vergognavo di esibire io, un piccolo ragazzino presuntuoso, un modesto giocattolo capace di meravigliare fin quasi allo stordimento quel brav'uomo semplice e ignorante, che non avrei dovuto umiliare a tal punto. Non ne avevo nessun diritto, no.
Almeno così ricordo d'essermi sentito quel lontano giorno di Capodanno, e questa sensazione ho tentato di raccontare.
Grazie per la cortese pazienza e AUGURI !
Lupo.

domenica 23 dicembre 2007

Auguri di BUON NATALE a tutti


Vorrei che a tutti quanti giungesse un caloroso augurio di BUON NATALE, dal più profondo del mio sentire, fiducioso che ciascuno possa essere toccato da un po' di serenità e di speranza.

Ma soprattutto mi piacerebbe che la donna qui raffigurata ritrovasse, dopo tanta sofferenza, la libertà perduta e l'amore della famiglia.

Rappresentando idealmente tutti coloro che patiscono la cattiveria umana a lei vada il nostro pensiero solidale. Auguri e coraggio Ingrid !


Ingrid Betancourt prigioniera da 5 anni delle Forze armate rivoluzionarie colombiane (Farc).

mercoledì 19 dicembre 2007

Sul Natale e dintorni

Ognuno di noi ha dei ricordi di sé bambino, durante le festività natalizie, e dei regali ricevuti in quel periodo. Ma dipende dall'epoca se a portarli era Gesù Bambino o la Befana. Comunque sia, anche negli anni successivi alla 2^ guerra mondiale, quando ero bambino io, l'intero periodo che va dal 24 dicembre al 6 gennaio era un momento speciale per noi piccoli, con un' atmosfera magica che sarebbe rimasta impressa per sempre nella memoria. Con alcuni distinguo rispetto al giorno d'oggi, naturalmente. All'epoca, nelle famiglie “normali” di allora, si allestiva il Presepe ed i piccoli attendevano la Befana per ricevere i doni, mentre Gesù Bambino c'entrava solo in quanto la notte della vigilia si completava la ricostruzione scenica della grotta o della stalla, deponendo la statuina del divino neonato dentro la culla. Tutto qui, altro che Babbo Natale ! Questa figura simbolica infatti, che ormai ha fatto quasi scomparire ogni altra tradizione, sarebbe arrivata un po' più tardi, insieme a tante altre cose di cui ora non è il caso di parlare. Torniamo a quegli anni del primo dopoguerra, quando potevo avere 6-7 anni. La situazione non era uguale per tutti, anzi, la distanza fra i pochi ricchi e le modeste condizioni di vita della maggioranza della gente era più marcata di oggi, epoca in cui esiste un benessere diffuso. Difatti rispetto a oggi a quel tempo solamente alcuni potevano godere di una festa bellissima, piena di luci e di giocattoli, di sorrisi, di gioia, con tanta gente allegra attorno. Mentre tanti invece si dovevano accontentare di meno, molto meno, quasi niente direi, come se il Natale fosse un giorno simile a tutti gli altri. Certo, poteva capitare che alle famiglie più bisognose venisse fornito per la speciale occasione un pacco-dono, quasi sempre roba da mangiare con qualche dolcetto per i più piccoli, ma la miseria non smetteva di esistere solo per la carità praticata in certe ricorrenze, questo è sicuro. Io non ero fra i poveri, per fortuna, anche se noi non ci potevamo definire benestanti: diciamo che facevamo parte del ceto medio, ma questo lo avrei capito solo in seguito, naturalmente. Un'altra cosa che non faceva parte del mio sentire di bambino, allora, e di cui avrei avuto più avanti consapevolezza crescendo, era il fatto che ci trovavamo nel dopoguerra. Questo significava molte cose a cui eravamo abituati. Per fare un esempio, utile forse ai ragazzi di adesso per capire come si viveva un tempo e come ci si accontentava di quel poco che c'era, durante l'inverno nelle case in genere un solo locale veniva riscaldato, la cucina, mediante la famosa stufa “economica” che andava a legna ed era il meglio della tecnologia di quegli anni (scaldava anche l'acqua, asciugava la biancheria e ci si cuoceva il mangiare, vi pare poco ?). Ricordo che nelle giornate più fredde e ventose, magari quando era nevicato, prima di coricarsi si usava scaldare il letto con uno scaldaletto in rame o con degli attrezzi speciali che dalle mie parti chiamavano il "prete" e "la monaca", forse per effetto del diffuso anticlericalismo della zona. Poichè si ricorreva alle braci infuocate, non di rado si rischiava di bruciacchiare le lenzuola. Ma quando ci si ficcava a tutta velocità (dato il gelo della camera) sotto le coperte e si iniziava a gustare con ogni voluttà possibile il calore così ottenuto, vi assicuro che era una goduria ! Per vestire, poi, non si spendevano certo le cifre di ora, che tutti andiamo alla ricerca dei modelli firmati e così via. Mi assale un po' di malinconica tristezza se ripenso alle giacche ed ai cappotti voltati e rivoltati che ereditavamo dai più grandi, con il taschino a destra, o alle scarpe sui cui tacchi si applicava una semiluna metallica atta a ridurne il consumo, o alla totale assenza degli elettrodomestici di cui siamo pieni oggi. Per quanto riguarda il cibo, poi, anche qui non è che si scialasse tanto, nemmeno sotto le feste: infatti è vero che in quei giorni si mangiava di più e meglio, in ogni famiglia qualcosa di speciale e di buono secondo la tradizione, ma sempre senza esagerare. Se vado con la mente al periodo dei primi panettoni, quelli che oggi chiamiamo industriali, ricordo che se ne assaggiava uno durante tutte le feste, non come adesso che ce n'è per tutto l'anno, fino alla nausea. E per restare al tema dei doni per i bambini, in casa mia veniva predisposto un grande ramo di abete che occupava un angolo della cucina in alto fin quasi alla porta che conduceva alle camere, e la notte della Befana su questo ramo papà e mamma posizionavano le candeline di cera di vari colori ed appendevano tanti mandarini, con un po' di caramelle e cioccolatini di contorno. Ed i nostri doni, a parte alcuni giocattoli, erano il torrone, i fichi secchi ed i datteri. Così era il mondo di una volta, eppure era bello, le nostre famiglie vivevano, noi crescevamo, la scuola funzionava ....
Vabbè, torniamo a me bambino nel dopoguerra. A dir la verità, riguardo alla condizione della mia famiglia qualcosa intuivo, pur essendo ancora piccolo, capivo cioè seppur vagamente che anche noi avevamo bisogno e che c'era qualcuno molto ricco e potente che ci poteva aiutare ogni tanto. In seguito avrei compreso che chi ci aiutava, il mio nonno “americano” tanto lontano ma onnipotente quasi fosse il "genio" delle fiabe, in realtà non era per niente ricco e potente, come immaginavo, visto che anch'egli lavorava come tutti per vivere, pur essendo orgogliosamente divenuto cittadino del grande Paese che dominava il mondo e dove si era rifatto una nuova vita ! Ma allora sentivo solo questo, che doveva mancare qualcosa pure nella nostra famiglia, se non altro per il fatto che ogni tanto mio padre ritirava uno scatolone, il famoso pacco in arrivo dall'America. Il più importante e atteso, adesso lo definirei strategico, era quello che il nonno spediva in Italia perchè giungesse in tempo per le feste natalizie. L'apertura del grosso scatolone era una specie di rito che coinvolgeva non solo noi bambini, ma anche papà e mamma. Anzi, il più agitato e curioso di tutti era proprio mio padre che moriva dalla voglia di verificare se ancora una volta ci sarebbero state quelle strane, per me, confezioni di sigarette dal nome difficile, che mi sembrava si chiamassero cesterfìl, lustraic e cammèl, e che a lui facevano brillare gli occhi. A noi piccoli toccavano altre cose: maglioni colorati, pantaloni e altri indumenti che subito nostra madre ci faceva provare, a seconda dell'età. E dato che eravamo tre maschi in scala, ciascuno trovava ciò che poteva andargli bene, con sua grande soddisfazione. A me una volta toccarono dei pantaloni con la pettorina, cosa mai vista prima, che poi avrei esibito a scuola assieme ad un magnifico maglione multicolore con la spocchia di chi, per meriti speciali, può indossare degli indumenti che nessuno dei compagni riuscirà mai a possedere. Talvolta c'erano anche delle caramelle e dei giocattoli. A proposito di giocattoli, succede che una volta nel pacco troviamo un pallone di cuoio, bello, con tutte le cuciture in evidenza, un pochino piccolo ma fatto proprio bene. Purtroppo, e lo capiamo subito, dato che non è tondo ma anzi ha la forma di un uovo allungato, non si riesce a farlo rimbalzare come avremmo voluto. Ecco, quella me la ricordai come l'unica grossa delusione fra le tante cose ricevute dall'America, come quando non ricevetti in regalo dal mio padrino il fucile flobert che m'aveva promesso ma .... un violino ! Dopo qualche tentativo andato a vuoto, infatti, concordammo di non fare cenno alcuno ai compagni circa quello strano coso, che anzichè accrescere la loro invidia nei nostri confronti (assai gratificante per noi) al contrario ci avrebbe fatto perdere punti ai loro occhi, essendo che non ci si poteva giocare con quella stramaledetta inutile palla ! Ma un giorno, però, avvenne il vero miracolo. Il pacco conteneva un piccolo, meraviglioso, fantastico trenino elettrico che i miei compagni di giochi ci avrebbero invidiato chissà per quanto tempo, dato che mica ce n'erano in giro di oggetti simili in paese. Per inciso, ricordo che mio padre tentò inutilmente di farlo andare, provando e riprovando i collegamenti elettrici ed i contatti. Alla fine per farlo funzionare ci volle l'intervento di Ido, che era un genio per il quale le robe di elettricità non avevano segreti e che in seguito avrei apprezzato come il più straordinario ideatore di presepi che avessi conosciuto. Bene. Cosa fece Ido ? Piazzò un portalampade con una lampadina enorme prima della presa dove si attaccava il cavo elettrico del treno, e soltanto questo bastò a risolvere il problema. Infatti, tenendo accesa la lampadina da 100 candele (che però, per quanto grossa fosse, faceva una luce fioca fioca) non so come, ma il trenino si mise ad andare e fare di tutto: correre all'indietro, fermarsi, ripartire, scaricare merce dal vagoncino speciale detto tender, aumentare o diminuire la velocità, sganciare i vagoni e riagganciarli, il tutto muovendo dei tasti e delle levette su una specie di centralina filoguidata. Uno spettacolo che in molti vennero a vedere e che inorgoglì l'intera famiglia. E ci fu anche qualche uomo grande che si divertì a giocarci !
Un saluto. Lupo.

martedì 18 dicembre 2007

Incidenti sul lavoro, ancora lutti

Cinque morti, uno alla Fiat di Melfi

ROMA - Cinque lavoratori morti in poche ore, vittime di altrettanti incidenti sul luogo di lavoro. Dopo l'ondata di indignazione provocata dalla tragedia nell'acciaieria ThyssenKrupp, non si arresta la catena delle morti bianche che continua a colpire da nord a sud della penisola. Le vittime a Venezia, Alessandria, in provincia di Roma, nello stabilimento della Fiat di Melfi e nel modenese.

Vado a dormire con quest'ultima rasserenante notizia.
Ragazzi, bisogna darsi una mossa. Qui non cambia proprio niente, è una cosa pazzesca !

Lupo

Monsieur Sarkozy e Carla

Un sacco di commenti su Monsieur Sarkozy e Carla.
Fra tutti quelli che ho sentito o visto, ad es. su Le Monde a margine dell'articolo a proposito del Presidente francese che si è mostrato a fianco della ex top-model Carla Bruni, il migliore è il seguente, di un certo Jean R., il quale dice press'a poco:

"113 commenti !!! Me ne frego di questo tipo di notizie e non ne voglio proprio sapere di caricare la dose".

Mi sembra l'unica cosa intelligente da fare, quando l' informazione si perde fino questo punto, abbassandosi sempre più in modo generalizzato al livello del peggior gossip, roba da isoladeifamosi o c......te del genere.
E pensare che sarebbero tanti gli argomenti da affrontare e portare alla cosiddetta pubblica opinione.
Buona giornata. Lupo.

P.S.: e poi io preferisco Monica Bellucci !

lunedì 17 dicembre 2007

Il capitalismo "buono"

Sfogliando l'inserto economico del mio quotidiano preferito mi sono soffermato a leggere un breve articolo sulla Zambon Pharmaceuticals, il gruppo farmaceutico di Vicenza che ha il suo quartier generale a Milano, più di 2000 dipendenti in 16 Paesi ed un fatturato in crescita. Si tratta di un'azienda "familiare", che non aspira a quotarsi in Borsa nè vuole competere coi giganti del settore, tuttavia un "gioiellino, sia per i dati economici che esprime, sia per la cultura d'impresa che interpreta".
Ebbene, sono rimasto colpito da una frase scritta nel 1953 dal fondatore Gaetano Zambon, che recita: "Una società autenticamente libera (quella capitalista) può essere moralmente accettabile soltanto a patto che la ricchezza privata diventi fraternità attraverso le opere buone, e benessere collettivo attraverso la creazione di mezzi di produzione, di fatti, di lavoro e possibilità di vita per altri uomini. Ogni onesto imprenditore si comporta così".
Credo che queste parole non abbisognino di commenti, ma solo di essere messe in pratica da chi si comporta invece come se fosse il padrone della vita e della morte dei prestatori d'opera.
Quindi non dico niente. Soltanto che il pensiero corre per forza alla "cultura d'impresa" espressa da multinazionali tipo la ThyssenKrupp !
Lupo.

domenica 16 dicembre 2007

Alcune cifre su cui riflettere, la Domenica mattina

Nel X^ rapporto dal titolo "Gli Italiani e lo Stato" coordinato dal politologo Ilvo Diamanti e di cui lo stesso ha dato notizia su "La Repubblica", emerge che solo il 29,7 % degli Italiani nel 2007 dichiara di avere fiducia nello Stato. La cosa sorprendente è che nel 2002 la percentuale era del 38,2 % !
Questo calo della fiducia tocca un po' tutte le istituzioni pubbliche, dalla Presidenza della Repubblica alla Comunità Europea, dalla Scuola alla Magistratura, ecc. Soltanto le forze dell'ordine continuano a ottenere sempre la fiducia della gente: infatti qui siamo al 73 %.
La Chiesa, che comunque è in calo, ispira fiducia al 53,6 % delle persone interrogate.
Ilvo Diamanti, che ha diretto lo studio, scrive che la società italiana è in piena confusione: infatti, se è vero che la maggioranza appoggia la democrazia, si scende però dal 75 % di coloro che hanno più di 55 anni al 60 % dei giovani fra 15 e 24 anni.
Questa "apatica diffidenza" si traduce in una diminuzione dell'impegno politico ed associativo.
Ora, dico io, non è che uno voglia sempre vedere nero o menar gramo, ma caspita, i dati oggettivi che spingono ad un certo pessimismo ci sono proprio tutti, anche sotto le feste, o no ?
Un saluto a tutti. Lupo.

venerdì 14 dicembre 2007

A Life Less Dolce

Chiedo venia se c'entra di nuovo l'America, ma stavolta in realtà si parla di noi, del Belpaese. Prendo spunto infatti dall' articolo di Ian Fisher sul NYT del 13 dicembre dedicato alla situazione dell'Italia, di cui tutti parlano da ieri, ed al quale ha fatto cenno anche il nostro Presidente Napolitano che si trova in questi giorni negli States in visita ufficiale. Doverosa premessa: il mio poco inglese è veramente .... poco ! ma insomma, il dizionario l'hanno inventato apposta, no ?
Fin dal titolo "In a funk, Italy sings an aria of disappointment", si capisce che non sono rose e fiori per la povera Italia. Ma tant'è, da molto tempo siamo abituati al clima di paura ed al senso di delusione che c'è in giro. Il giornalista statunitense inizia proprio la sua analisi descrivendo il "malessere" dell'Italia di oggi, di questa sorta di paura collettiva che si è diffusa fra la gente: probabilmente questo stato d'animo fa sì che gli Italiani oggi si sentano i più infelici d'Europa, via via che la frustazione aumenta. Fino a ieri eravamo quelli del "savoir vivre", mentre adesso c'è più paura che speranza, come dice Veltroni. I dati statistici dimostrano che il Paese è cambiato, che siamo più vecchi e più poveri, ma nessuno sembra capace di capire e fare qualcosa per contrastare la decadenza. Le famose e mitizzate PMI, la spina dorsale dell'economia, sono in crisi e lottano per sopravvivere contro la concorrenza cinese, in un'economia globalizzata. Prosegue impietosa l'analisi di Fisher: la famiglia è piena di problemi, il 70% dei giovani dai 20 ai 30 anni vive ancora in casa, col risultato che i giovani sono condannati ad una lunga ed improduttiva adolescenza. A marchiare con cruda efficacia la decadenza italiana rispetto ai fasti del passato c'è l'immagine, suggerita dall'ambasciatore Spogli, dell'edera che s'è avvinghiata attorno a questo nostro fantastico albero vecchio di 2500 anni e che gli impedisce ormai di vivere ! Intorno ci sono sempre le stesse facce, "tired old faces" le vecchie facce stanche (v. i parlamentari). Bisogna tagliarla quest'edera. Più avanti il giornalista accenna al successo clamoroso, e significativo per la sua tesi, di libri quali "La casta" e "Gomorra", che hanno mostrato i peccati ed i privilegi della classe politica, che comunque permette alla camorra di prosperare. Siamo dunque ai soliti vecchi problemi dell'Italia ? A. Stille dice di no, anzi afferma che negli anni dal '50 al '90, mentre l'economia era in espansione, la gente avrebbe tollerato il cattivo comportamento dei leader; ora però, la crescita è lenta e la qualità della vita è in declino .... dunque "now life is harder". Il problema è che gli Italiani pensano che gli attuali leader siano incapaci di cambiare, hanno poco o per niente fiducia in loro, ad es. non hanno votato Berlusconi perchè non ha mantenuto le promesse di crescita e di opportunità basate sul merito (in American-style); e d'altra parte Prodi ha detto di voler cominciare una nuova vita, ma poi ha fatto troppi ministri e s'è invischiato in una difficile maggioranza.
"We are not a normal country" dice il consulente finanziario G. Gamboni: è una tristezza che ciò che potrebbe essere, non è (a proposito del fatto che chi lavora ed ha contatti con altre realtà vede come tutto funziona meglio altrove). Certo, Fisher non tace dei gravi problemi che hanno attraversato l'Italia, alcuni epocali: si è passati dai 25 milioni di concittadini emigrati in un secolo ai 3,7 milioni di immigrati da noi oggi, il peso della Chiesa è diminuito, c'è stata la fine della DC, la famiglia è in crisi, ci sono bassa natalità e troppi vecchi (perfino in TV, ed è simpatica questa notazione). Ma ecco, forse, il punto fondamentale: "the generational divide", il divario generazionale, e qui non si taccia dei 68 a. di Prodi o dei 71 a. di Berlusconi !
Che idea dell'Italia, allora ? Non c'è più la grandezza di una volta, nel cinema, nella musica, nell'arte ... E' vero, però ci sono Ferrari, Ducati, Armani, Piano, Illy, il Barolo ecc. cioè tutti quei simboli dello stile e del prestigio, il fascino del "made in Italy". Allora, forse, il futuro sta qui ? Ma, si chiede Fisher, questa strategia del made in Italy, basterà ? Di ciò è convinto Illy: "this is where Italians are winners". Per essere vincitori, però, occorre risolvere i problemi dell'industria, causati dalla concorrenza, cercando di guardare al mercato e di ottenere la qualità e l'unicità che certamente si trovano nei prodotti italiani, non in quelli cinesi. Tuttavia gli imprenditori si lamentano di essere scarsamente aiutati dai politici, che c'è troppa burocrazia, mentre al contrario servirebbero più flessibilità e più infrastrutture.
Montezemolo osserva che "now it's time to change", perchè nel migliore dei casi siamo fermi. A favore della efficacia della cosiddetta "strategia del made in Italy" sono la preparazione dei giovani imprenditori (i quali sono molto più avanti degli attuali) e la creazione del nuovo PD, mentre contro vanno gli investimenti troppo scarsi e la poca Ricerca & Sviluppo. E' chiara a tutti gli schieramenti politici, peraltro, la necessità di una nuova legge elettorale.
L'articolo del NYT si chiude con un paragone fra l'Italia di oggi e la Serenissima Repubblica di Venezia, che è diventata nient'altro che un "bellissimo cadavere" calpestato da milioni di turisti. C'est à dire: l'Italia oggi appare quasi bloccata dalla passata grandezza, come successo a Venezia. Infine l'articolo riporta quanto detto da B. Severgnini: non basta vedere i problemi, occorre soprattutto cambiare i nostri singoli atteggiamenti (pagare le tasse, non accettare i compromessi, non chiedere favori, non barare ecc.). Più che mai abbiamo il nostro destino nelle nostre mani.

Fin qui l'articolo (e mi scuso se mi sono dilungato) sul quale vorrei dire alcune cose. Mi auguro di sentire anche il parere di altri.
Ho notato che alcuni commentatori italiani si sono alquanto risentiti rispetto al contenuto dell'articolo di Ian Fisher. Io, sinceramente, a parte l'immagine finale della Serenissima disfatta come un cadavere che m'è parsa, come dire, quasi un portar "sfiga", la sostanza dell'articolo sento di condividerla. Infatti, cosa si sottolinea in esso ? Che siamo un paese bloccato, che ha perso lo slancio dei decenni passati, che ha scarsa fiducia nel futuro, che è invecchiato, che manca di infrastrutture, che è avviluppato su se stesso, che ha una classe politica prossima alla mummificazione, che ha una burocrazia pesante e inutile, un paese in cui troppi imprenditori sono in ritardo rispetto alle esigenze della globalizzazione. Si sarebbe potuto parlare di molto altro ancora, ad es., che so, che siamo un paese dove prevalgono quasi sempre le logiche corporative. Converrete con me che la lista sarebbe lunga assai. Vorrei però puntare il dito su una questione che ritengo essenziale affinchè l'Italia possa uscire finalmente dalla palude in cui s'è chiusa, e riprendere la crescita e lo sviluppo: la questione generazionale, attorno alla quale secondo me si gioca il destino futuro. Qui sta il male. Dobbiamo cambiare l'educazione delle nuove generazioni, abbandonare l'atteggiamento di pericoloso lassismo che s'è installato nelle famiglie e nella scuola. Dobbiamo far sì che i nostri giovani siano abituati fin da piccoli a sapere che ci sono delle regole da rispettare, senza cercare scorciatoie, che la vita non è mai facile e che occorre sempre competere e lottare per conquistare qualcosa. A partire dalla scuola e dallo sport, che nella scuola non si pratica più ormai e sarebbe invece il mezzo migliore per insegnare appunto che niente è facile da ottenere e al contrario il risultato si può avere solo a prezzo di fatica e sacrifici. Anche per tutto ciò sono d'accordo con Padoa-Schioppa. Bisogna che i nostri ragazzi escano di casa prima, come avviene in tutti gli altri paesi europei, cioè bisogna che la smettano di fare "i bamboccioni", che si costruiscano una vita autonoma, al limite rischiando, senza avere sempre la amorevole copertura della famiglia. E noi adulti dobbiamo dare loro strada, altrimenti non si smuove nulla, la situazione si avviluppa sempre di più, come nell'esempio dell'edera dell'ambasciatore Spogli. E' una strana società, infatti, quella attuale. I giovani restano nel guscio accogliente della casa paterna (fino ai 40 a. magari), noi "adulti" siamo ormai diventati anziani ma vogliamo occuparci ancora dei figli, senza tralasciare i nipoti ed i vecchi genitori, a volte vecchissimi (quest'ultimo è un problema che ricade soprattutto sulle donne !). Ma purtroppo nessuno vuole mollare il potere, piccolo o grande che sia, col risultato che alla fine ci dobbiamo rallegrare se "ragazzi" cinquanta-sessantenni come Veltroni o Casini o Fini riescono a scalzare dalla loro carega i vecchioni che le occupano da tempo immemorabile. Inoltre, il bello è: dove sarebbe il nuovo, dove sta il ricambio generazionale se le facce che si vedono sono sempre le stesse, le famose "tired old faces" dell'articolo ? A me sembra che tutto ciò sarebbe ridicolo, se non fosse tragico.
Saluti a tutti. Lupo.

domenica 9 dicembre 2007

Dio e le elezioni americane

Mi sono divertito a leggere i commenti ad un articolo della corrispondente da NY di Le Monde, Sylvain Cypel, a proposito della "discesa in campo" di Dio nella campagna elettorale repubblicana. Si stanno avvicinando le primarie (il 3 gennaio si inizia in Iowa) e pertanto tra i candidati neoconservatori e fondamentalisti ogni strategia è buona per conquistare l'elettorato repubblicano tradizionalista. L'argomento è stato discusso anche da Ferrara, qualche giorno fa: cosa pensare del fatto che quasi tutti i candidati chiamano in causa il Libro e Dio, cercandone spudoratamente l'appoggio per battere gli avversari. Come evidenziato dalla giornalista di Le Monde, succede però un fatto curioso: è vero, tutti si richiamano a Dio e alla Bibbia, ma ognuno afferma poi che ..... il suo Dio è migliore di quello degli altri. E allora ecco che i battisti sono contro i mormoni, salvo trovarsi d'accordo contro l'odiato Giuliani, cattolico e pluridivorziato ! Dunque uno si chiede: ma la laicità dello stato, dov'è ? Non è forse uno dei capisaldi della Costituzione degli States ? Ah, l'America .. !
Venendo ai commenti dei lettori di Le Monde, ne cito soltanto alcuni secondo me interessanti per la precisione e l'arguzia:

- non capirò mai la pretesa dei discendenti degli immigrati di aver "creato" l'America; non c'erano forse delle popolazioni, prima di venire massacrate in nome di Dio ?
- sfortunatamente gli elettori US credenti continuano a non capire d'aver eletto un incompetente, i fondamentalisti sono convinti che un incapace il quale si dice illuminato da Dio è meno incapace: vi scongiuro, Americani, non ripetete la stessa bestialità !
- i protestanti inglesi e olandesi sono venuti in America (dopo gli Ugonotti) proprio per la libertà di sostenere che noi uomini siamo "diversi" di fronte a Dio, c'è chi viene "scelto" per essere ricco e poi ci sono gli altri ! dunque, la religione permette agli americani ricchi di giustificare la loro oppressione sulle masse: di cosa dovrebbero parlare se non di religione ?
- i Francesi non capiranno mai l'atteggiamento degli Americani di fronte alla religione, come questi non comprenderanno la nostra valutazione di concetti come laicità ed uguaglianza. Grazie Francesi, per aver creato con la vostra intolleranza l'America ! (ossia grazie per aver costretto gli Ugonotti, in cerca di libertà di espressione e di religione, ad emigrare nel 1564 in America !)
- tutto questo è molto inquietante
- una vera Repubblica può non essere laica ?
- Laicità, prezioso valore francese ! i nostri antenati hanno tanto sofferto !
...............

Mi fermo per non tediare, ma credo che la questione meriti una qualche riflessione.
Ciao.

giovedì 6 dicembre 2007

Continuare la strada

E' incredibile come ci si abitui a qualcosa di cui, in seguito, non si riesce più a stare senza. Vedi questa benedetta ADSL ! Dovendo lasciar casa per qualche giorno, comunque avevo preso con me il portatile, perchè speravo di fare il furbetto agganciando una qualche rete wireless, magari quella dell'inconsapevole vicino. Ma niente, non c'è stato verso di entrare in Internet. E va bene, pazienza ! Finalmente a casa, sono di nuovo "connesso". Hoc erat in votis ! A dirla tutta, Willy m'aveva messo sull'avviso "attento, che il web dà una certa dipendenza" e visto che non gli avevo creduto, manco a dirlo sono subito entrato in una specie di crisi da astinenza. Comunque sia oggi, rientrato a casa, ho proprio bisogno di parlare con qualcuno per sentirmi un po' meglio. Che altro fare, se non buttar giù qualche pensiero per farmi passare 'sta gran tristezza che mi si è appiccicata addosso ? Negli ultimi giorni, infatti, mia moglie ed io siamo stati assieme ad una nostra amica che ha perso il marito pochi mesi fa, e abbiamo cercato per quanto possibile di aiutarla con la nostra vicinanza, facendola sentire meno sola, così come si fa in circostanze simili col semplice stare vicino alle persone cui si vuole bene. Non è che le parole servano poi a molto, in certi casi, no ? Ebbene, la tristezza in me è acuita dal fatto che la persona scomparsa così dolorosamente l'estate scorsa era mio amico sin dall'infanzia. Io penso che le amicizie di una vita siano davvero speciali e non finiscano mai, nemmeno con la morte. Ciò dipende da una sorta di vicinanza così intima, ininterrotta e generosa che neanche la distanza fisica riesce a indebolire. Infatti, anche se due amici non si vedono per anni (a volte succede) non appena si ritrovano assieme è tutto come prima, come se ci si fosse lasciati da appena un giorno. Tutto è come sempre, le stesse emozioni, gli stessi ragionamenti, lo stesso discorrere. In una parola, lo stesso identico sentire. Questo per me significa essere amici. E quando qualcuno ci ha lasciato o, come dicono gli Alpini, è andato avanti, bisogna continuare la strada anche per lui. Questo credo. Nel caso specifico di cui sto discorrendo ora, ad aumentare il doloroso rimpianto per la perdita del mio amico ha contribuito non poco la visione dei ricordi fotografici raccolti in un DVD. Il figlio minore, infatti, con una scelta accurata ed affettuosa nello stesso tempo ha trasferito su disco una serie di foto riguardanti il padre, da quelle più vecchie che lo ritraggono ragazzo e poi giovane uomo, fino alle foto di lui con i figli piccoli, con gli amici, con i familiari, ecc. Non mancano le immagini della maturità e le più recenti, quand'era già gravemente malato. Ci sono foto che parlano del suo impegno sociale, del suo amore per la "politica", delle sue scelte ambientaliste e così via. Il tutto sottolineato da un commento musicale molto adeguato (mi è sembrato di cogliervi un'eco ebraica) e concluso da alcune parole semplici e dense, bellissime. Debbo dire che mi sono commosso alla visione di questo omaggio all'amico scomparso, anche perchè le immagini che passavano veloci sullo schermo non erano soltanto tutta la SUA vita, ma erano ANCHE la mia vita. Tutta la nostra vita m'è trascorsa davanti mentre pensavo che, in fin dei conti, la presenza degli uomini qui sulla terra si riduce a pochi, pochissimi momenti significativi, nel rapido divenire del tutto. Provo gratitudine per questo figliolo che ha dimostrato, curando l'allestimento del supporto digitale da fornire agli amici, una levità di sentimenti ed un amore per il padre che non mi sarei atteso in tale misura. Non si finisce mai di imparare.