Fra i ricordi della fanciullezza che s'affastellano nella memoria, talora incerti e confusi per la lunga serie di anni alle spalle, mi è gradito in questo periodo di feste riandare al tempo in cui nella nostra famiglia c'era l'abitudine di trascorrere insieme le giornate tra il Natale e l'Epifania. Non dico tutti i giorni, ma assai di frequente, questo sì, la casa dei nonni materni ci vedeva riuniti per pranzare o cenare nella grande cucina o anche semplicemente per stare in compagnia a giocare. Gli adulti si impegnavano in interminabili partite a ramino, interrompendosi appena per sorbire il punch che la zia preparava fra una mano e l'altra senza perdere nemmeno una battuta, non so come facesse. Intanto noi bambini ci dedicavamo ai nostri giochi o stavamo ad osservare i grandi. A me piaceva molto studiarne il comportamento durante le partite, non soltanto per imparare le regole ma anche per capire le astuzie che usavano: desideravo infatti prendere parte anch'io al gioco, visto che ormai ero grandicello. Più di tutto mi piaceva la tombola, specialmente tenere il tabellone. Così, ad ogni numero pescato, potevo pronunciare ad alta voce i commenti che avevo imparato ascoltando i grandi: ”settantasette, le gambe delle donne; novanta, la paura; quarantasette, il morto che parla !” mentre i giocatori incalzavano con “mescola bene, mi raccomando !” oppure ”é uscito il trenta ?”. V'erano altri passatempi, ad esempio il “sette e mezzo” ed uno che non ricordo bene, forse si chiamava “campana e martello” e somigliava un po' al gioco dell'oca. Certe serate si sedeva al tavolo con gli altri anche mio cugino, molto più grande di me, un giovanotto atletico che era un po' il mio eroe preferito: correva in motocicletta, andava a caccia, giocava nella squadra di calcio, faceva l'università a Bologna e, anche se la cosa per me allora non aveva un gran significato, si diceva piacesse molto alle ragazze. Lo adoravo talmente tanto, da decidere che da grande sarei diventato come lui, che oltretutto era fortunato e vinceva sempre quando si trattava di soldi (questo mio cugino, disposto a concedere parte del suo tempo ai parenti ed a ritardare l'uscita serale, ma solo ... se si giocava a soldi, mi sa che fosse una lenza !).
La cucina, teatro di quelle lunghe serate di festa, era molto ampia, forse il locale più grande dell'abitazione, con un enorme focolare in cui si bruciava una grande quantità di legna per riscaldare l'ambiente, ma dove anche si cuocevano vivande di ogni genere. Oltre all'immancabile caldaro di rame per l'acqua, il focolare disponeva di specifici fornelli per i cibi a lenta cottura e per i dolci, nonchè di un girarrosto con la carica a molle, sul cui spiedo ho visto rosolare tante specialità diverse ma sempre gustosissime: pure con i mezzi scarsi di una volta le nostre donne erano fantastiche, altrochè. In un vano apposito, ricavato da una parte della cappa, si conservavano alcuni tegami di rame di varie dimensioni di cui la zia andava fiera, avendoli salvati dalle requisizioni fasciste, del genere “rame alla patria”, diceva. Il focolare occupava quasi interamente la parete di sinistra della stanza, e la cappa era talmente grande che spesso noi bambini, durante i nostri giochi, la usavamo come tana per nasconderci, ovviamente a fuoco spento ! Ci tiravamo su fino a scomparire al suo interno, dopo esserci aggrappati al gancio che il nonno utilizzava per appendere il prosciutto, quand'era il momento. La cucina era tanto spaziosa ed accessoriata poichè in passato, “anticamente” come si diceva in casa, il primo piano dell'abitazione era adibito a trattoria, dunque gli avi dovevano essere attrezzati per preparare pranzi e cene, sia per la numerosa famiglia che per i clienti. Me li figuro gli avventori di quell'epoca, carrettieri, braccianti, facchini (tutta gente d'appetito robusto), intenti a saziare nella trattoria “da Gigi” la loro fame antica. E quasi li vedo mentre ingurgitano le povere semplici pietanze del tempo, annaffiate dall'ottimo verdicchio della casa che giunge al banco della mescita direttamente, non so come, dalle damigiane poste nella sottostante cantina.
Dunque il nonno, rispettando la tradizione, alcuni giorni prima di Natale si faceva portare dalla campagna un bel ceppo di ulivo che doveva ardere nel focolare per tutto il periodo delle feste, come portafortuna. Essenzialmente il ceppo aveva il compito, come dire, di collaborare alla funzione propria della legna da ardere, che ogni anno verso la fine dell'estate veniva accatastata in cantina, pronta all'uso: in effetti i tronchetti di pioppo, olmo, rovere e quant'altro bruciavano, certo, tuttavia la fiamma si limitava a lambire il ceppo sapientemente accostato, sicchè esso si consumava piano piano e poteva durare fino alla Befana, senza problemi. Di notte, l'ultimo a salire alle stanze di sopra per coricarsi metteva in sicurezza il camino, assicurandosi che il fuoco si stesse spegnendo. L'indomani il nonno, sempre il primo ad alzarsi ed a scendere in cucina, lavorava abilmente con l'attizzatoio per staccare dal ceppo dei piccoli tizzoni ancora accesi e con l'aiuto di qualche legnetto secco faceva in un attimo ripartire la fiamma. Il nonno era orgoglioso del suo focolare, eccome. Dopo cena, prima di uscire per recarsi al Bar Centrale come era solito fare con kantiana precisione, sostava in silenzio per qualche minuto ad ammirare il fuoco scoppiettante. Poi, preso con le molle un tizzone bello rosso e badando a non scottarsi, s'accendeva l'ultimo mezzo toscano della giornata e dopo un paio di boccate s'avviava verso il portone e “scappava” (scappare è il verbo che si usa dalle mie parti al posto di “uscire di casa" e l'espressione, oggi, sembra urtare alquanto la suscettibilità delle signore, non tutte però).
Il primo gennaio vigeva la consuetudine di avere in casa, come ospiti d'onore al pranzo appositamente allestito per il Capodanno, i “capoccia” dei mezzadri che coltivavano i poderi del nonno. All'epoca nelle Marche era diffusa la mezzadria, essendo ancora minoranza i coltivatori diretti o i fittavoli, presenti invece in altre parti del Paese. Non che mio nonno fosse un ricco proprietario terriero, tutt'altro. Possedeva due piccoli poderi a qualche chilometro dal paese che gli davano, tolte le spese, poco più di niente, ed un altro microscopico appezzamento appena fuori le mura, quasi un orto. Ma insomma, la brava gente che campava faticando sulla sua terra veniva, in certo modo, ricompensata una volta all'anno con l'invitare i capi-famiglia alla tavola del “sor padrone”, come si diceva allora, appunto per festeggiare insieme l'anno nuovo. Ero un ragazzino, quindi mi limitavo a ciò che vedevo e potevo capire: il fatto alquanto insolito mi piaceva ed a me bastava questo, non essendo assolutamente in grado di giudicare l'atteggiamento del nonno o i motivi di questa sua decisione. D'altra parte, avevo notato la familiarità con cui egli trattava i suoi contadini, quindi vederli a pranzo con noi mi confermava che essi in fin dei conti non erano degli estranei, tutt'altro. E poi il “sor padrone” aveva anche un regalino per loro, proprio come se fossero di casa. Quale ulteriore riconoscimento i “capoccia” avevano il privilegio di recare con sé il primogenito. Venivano solo due figli, poiché uno dei contadini non aveva discendenza. Il più grande poteva avere una ventina d'anni e non mi interessava, mentre l'altro era un ragazzino della mia età che conoscevo abbastanza bene, incontrandolo di frequente al podere. La sua presenza era molto stimolante per me, in quanto m'avrebbe fornito finalmente l'occasione di rivalermi di tutte le brutte figure che mi toccava fare quando accompagnavo il nonno nelle periodiche visite in campagna. In quell'ambiente, infatti, non c'era storia: io ero impacciato, e finivo regolarmente per fare la parte dell'incapace in confronto a lui, ragazzino di campagna che sapeva dominare la situazione e possedeva abilità sconosciute ad un coetaneo di paese. Egli non si faceva scrupoli a sfoggiare tutto il suo campionario con me. Iniziava dalla stalla, col mostrarmi quant'era bravo a mungere, poi si divertiva a chiudermi dentro il recinto dei maiali, scherzo che m'infastidiva un sacco, quindi mi guidava tutto baldanzoso giù per il campo per farmi ammirare il nido che aveva scoperto il giorno innanzi, e altre consimili esibizioni. In genere, però, la mia residua capacità competitiva era annientata dal constatare quanto più lontano e preciso di me sapesse colpire con la fionda, esercizio in cui non mi ritenevo l'ultimo arrivato. Rientravo in paese quasi sempre frustrato dal confronto, tuttavia felice per le ore trascorse in campagna (ambiente che ho sempre amato e che mi fa star bene anche ora). Che la felicità dipendesse però, almeno in parte, dalla fine dell'impari lotta col mio giovane rivale di campagna ? Mi è sempre restato il dubbio.
Comunque sia, il Capodanno rappresentava l'occasione della mia rivincita ! Infatti in casa del “sor padrone”, alla nostra tavola riccamente imbandita, avrei fatto valere il mio prestigio di fronte al suo impaccio ed alla sua inettitudine, incapace com'era non dico di conversare ma persino di starci come si deve, a tavola. Che bello, adesso mi sentivo al sicuro e superiore nella mia classe sociale, ben più elevata della sua e dove le abilità “contadine” non sarebbero servite a nulla, anzi. Finalmente mi sarei potuto divertire alle sue spalle. Inoltre quell'anno (poteva essere il 1953-54) avevo un asso nella manica, che l'avrebbe lasciato di stucco a crepare d'invidia. Dopo pranzo, infatti, avrei orgogliosamente esibito il nuovo giocattolo ricevuto in regalo da Gesù Bambino. A tal proposito debbo precisare che, di anno in anno, alla tradizionale Befana si stava aggiungendo nelle famiglie italiane questa nuova consuetudine di Gesù Bambino, che ovviamente noi bambini non facemmo difficoltà ad accettare. Pertanto anche a me era già toccato un dono, pur restando i regali della “vecchia” quelli ancora più sognati e attesi nei piccoli paesi come il mio, un po' ai margini del progresso socio-culturale di quei primi anni cinquanta. Avevo dunque ricevuto un piccolo proiettore cinematografico, naturalmente senza sonoro e funzionante a manovella, corredato di alcuni spezzoni di pellicola 35 mm. a colori: un po' di quella roba che oggi si chiamerebbe “trailers” ed alcuni metri di cartoni animati. Per me fu un regalo meraviglioso, pur dovendo armeggiare parecchio per inserire e togliere i vari spezzoni. Li proiettavo in continuazione in cucina, su un tratto di parete liscia e bianca che pareva proprio uno schermo, ed ero diventato abbastanza abile a regolare la velocità di rotazione della manovella, tanto che la visione delle varie scene era rotonda, senza strappi. Rimaneva però il dover ogni volta avvolgere e riavvolgere le pellicole, procedimento alquanto laborioso, tanto che qualche settimana dopo mio padre chiese al proiezionista del locale cinematografo il favore di sigillare gli spezzoni tra di loro, sì da ottenere un'unica pellicola più comoda da caricare. Per verificare il risultato del suo intervento, il tecnico mi fece sedere in sala e proiettò il film così ottenuto sul grande schermo del cinema, così scoprii che c'era addirittura il sonoro ! La cosa mi fece un'enorme impressione.
Dunque, quel Capodanno, al termine del pranzo posiziono in un angolo del tavolo il mio bravo proiettore, lo collego alla presa elettrica ed inizio a mostrare il primo spezzone che avevo precedentemente messo in macchina: un breve cartone animato, molto divertente. Mentre manovro la manovella sto molto attento a sbirciare in viso il mio amico campagnolo, pronto a coglierne le reazioni, perchè questo sarà il vero spettacolo per me ! Non me lo perderei per niente al mondo, anzi me lo voglio godere fino all'ultimo. Ma, con mia grande sorpresa, è proprio la reazione di suo padre Augusto a colpire, con me, tutti i circostanti. Ci si rende immediatamente conto che il “capoccia”, per la prima volta in assoluto, sta vedendo delle immagini in movimento. Sì, incredibile, egli non era mai stato al cinema in vita sua e dunque, quasi sconvolto, manifestava tutto il suo stupore, agitandosi sulla sedia, e fanciullescamente gridava: “si muove, guarda, si muove !” e giù a ridere come un matto. Reagiva come un bambino o come l'indigeno della foresta amazzonica al primo contatto con la modernità. Il comportamento sorprendente ed inatteso del buon Augusto, lo confesso, mi tolse un po' il piacere della “vendetta” che ero pronto a cogliere nei confronti del figliolo. Mi sentii in imbarazzo, quasi mi vergognavo di esibire io, un piccolo ragazzino presuntuoso, un modesto giocattolo capace di meravigliare fin quasi allo stordimento quel brav'uomo semplice e ignorante, che non avrei dovuto umiliare a tal punto. Non ne avevo nessun diritto, no.
Almeno così ricordo d'essermi sentito quel lontano giorno di Capodanno, e questa sensazione ho tentato di raccontare.
Grazie per la cortese pazienza e AUGURI !
Lupo.
Verso gli ottanta/13
-
Ho deciso di pubblicare in forma eBook sia L'Ascoltatrice che Dep&Dap.
Civetteria senile. Il libro dedicato all'Imperatore Adriano invece se ne
resta in ar...
1 anno fa